[didascalia fornitore=”ansa”]Totò Riina[/didascalia]
(testo a cura di Alessandro Pignatelli)
È morto alle 3,37 del mattino Totò Riina, considerato il capo dei capi di Cosa Nostra. Si trovava nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma, dove recentemente aveva subito due operazioni chirurgiche ed era entrato in coma. Era nel carcere emiliano dal 15 gennaio del 1993, quando venne arrestato dopo 24 anni di latitanza, sottoposto al 41-bis. Ma secondo gli inquirenti era tuttora il capo di Cosa Nostra, pure da dietro le sbarre.
Stava scontando un cumulo di 26 ergastoli, il primo per un omicidio compiuto a Corleone negli anni ’50. Tra le accuse più gravi gli attentati ai magistrati Falcone e Borsellino e alle rispettive scorte nel 1992. Proprio di questi omicidi si vantava tuttora in carcere, parlando nell’ora d’aria con il boss pugliese Alberto Lusso: “A Falcone gli ho fatto fare la fine del tonno”. Con parere positivo da parte della Procura nazionale antimafia e dell’amministrazione penitenziaria, il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva firmato il permesso per consentire alla moglie e ai figli di visitare Riina in ospedale dopo che le condizioni si erano decisamente aggravate.
Salvo, il terzogenito dei quattro figli avuti dal boss di Corleone insieme a Ninetta Bagarella, aveva scritto al padre gli auguri per l’87esimo compleanno festeggiato il 16 novembre: “Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà. E in questo giorno per me triste ma importante ti auguro buon compleanno papà”. Un post su Facebook, poi rimosso, che aveva ricevuto centinaia di like e di commenti di altre persone che si aggiungevano per gli auguri al capo di Cosa Nostra.
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L’ultimo processo a carico di Totò Riina, che era ancora in corso, riguardava i presunti rapporti occulti tra Stato e mafia. Lui era imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato. Finché le condizioni di salute glielo hanno permesso, Riina ha seguito in videoconferenza tutte le udienze del procedimento. La scorsa estate, quando già le condizioni di salute del ‘padrino’ erano gravi, si era discusso dell’ipotesi di lasciar uscire dal carcere di Parma Riina.
Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva però rigettato la richiesta del differimento della pena o, in subordine, della detenzione domiciliare per dargli “una morte dignitosa”. Il capo dei capi, in quanto tale, avrebbe potuto svolgere ancora attività criminose, soprattutto tornando a Corleone. E poi, “non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero”.
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(testo a cura di Francesco Minardi)
Nato in una famiglia di contadini, fu iniziato alla mafia dal boss Luciano Liggio. Dopo vari reati minori, a 19 anni commise il primo omicidio: uccise un coetaneo e fu condannato a 12 anni. Scarcerato in anticipo, nel 1956, entrò nella cosca di Liggio e fu coinvolto nella faida con quella rivale. Condannato per omicidio nel 1963, fu assolto sei anni dopo. Iniziò allora l’ascesa ai vertici di Cosa Nostra. Riina fu tra gli esecutori della “strage di Viale Lazio” e dell’omicidio del procuratore Pietro Scaglione, e partecipò ai sequestri a scopo di estorsione a Palermo. Acquisì sempre più potere fino a quando, nel 1974, con l’arresto di Liggio divenne capo della cosca di Corleone e fu protagonista di guerre di mafia.
Il principale referente politico di Riina fu Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo della Democrazia Cristiana che, nel 1976, diede vita a una collaborazione con la corrente di Giulio Andreotti, in particolare con Salvo Lima. Alcuni avversari politici di Ciancimino furono uccisi dagli uomini di Riina. Tra loro il segretario regionale del PCI Pio La Torre, trucidato il 30 aprile 1982 per aver accusato pubblicamente Ciancimino di essere legato a Cosa Nostra.
Altro referente fu Salvo Lima, che si adoperò per aiutare i boss condannati in primo grado nel 1987 nel Maxiprocesso di Palermo, tra cui lo stesso Riina. La conferma della sentenza da parte della Cassazione del 1992 fece infuriare il boss, che decise di lanciare un avvertimento ad Andreotti, reo di essersi disinteressato alla sentenza e di aver firmato il decreto-legge con cui gli imputati del Maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliari tornarono in galera. Il 12 marzo 1992 fu così ucciso Salvo Lima.
Riina fu famoso per le violente ritorsioni contro i collaboratori di giustizia , come Tommaso Buscetta. Il boss ordinò l’eliminazione dei suoi parenti fino al ventesimo grado di parentela. Puniva anche i cosiddetti cani sciolti dell’organizzazione come Francesco La Bua, colpevole di commettere usura contro la povera gente, venendo meno al particolare codice d’onore di Riina. Il quale decise di darlo in pasto ai maiali. Sorte a cui La Bua tuttavia riuscì a sfuggire.
Riina fu tra i protagonisti della trattativa Stato-mafia, ancora avvolta nel mistero: fu la proposta di accordo avanzata da Riina e Bernardo Provenzano ad alcuni apparati dello Stato per fare in modo che le stragi di mafia degli anni ’90 si placassero. Le richieste furono organizzate nel “papello”, l’elenco di richieste scritto da Riina tra cui l’abolizione del 41 bis (il carcere duro per i reati di mafia) e le agevolazioni sull’acquisto della benzina per i cittadini siciliani.
[didascalia fornitore=”ansa”]Totò Riina nell’aula bunker del tribunale di Caltanissetta durante il processo per la strage di Capaci, in una immagine del 14 novembre 1996[/didascalia]
Riina, latitante dal 1969, fu arrestato il 15 gennaio del 1993 dal Crimor, squadra speciale dei ROS guidata dal Capitano Ultimo. Venne fermato fuori dalla sua villa di Palermo, dove aveva trascorso alcuni anni della sua latitanza insieme alla moglie Antonietta Bagarella e i figli. L’arresto fu favorito dalle dichiarazioni dell’ex autista di Riina, Baldassare Di Maggio, ai carabinieri. Probabile anche un tradimento da parte di Bernardo Provenzano, stanco della strategia stragista di Riina che stava danneggiando Cosa Nostra. Più la mafia può agire nel silenzio, infatti, più è potente e fa affari.
Riina fu condannato a vari ergastoli per i tanti omicidi commessi nella vita da boss: uccisioni di rivali mafiosi, uomini dello Stato e giudici. Fu il mandante, tra gli altri, dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Giovanni Falcone (strage di Capaci) e di Paolo Borsellino (strage di via D’Amelio).
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