Trattare ovvero negoziare per giungere ad un accordo. Qualunque negoziazione prevede un dare e un avere che consegua reciproci obiettivi finalizzati in accordo. La trattativa tra Stato ed Antistato non è proprio una novità.
Probabilmente è esistita da sempre ma la vicenda che più recentemente ci sgomenta, (e forse ci spaventa) è quella di cui al processo di Palermo, intercorsa tra politici, alti funzionari e boss mafiosi, nel nome del bene della Nazione. Ma questo è sempre avvenuto?
Probabilmente no. Ma è soprattutto quando la violenza tocca la politica, ecco che spuntano “i negoziatori”. Avvenne anche con le Brigate Rosse, originariamente insurrezionaliste. A questo Paese mancava una rivoluzione e Renato Curcio (credo) l’avesse idealizzata e teorizzata come “guerrigliero” ma contaminazioni, egoismi, erronee interazioni, mutarono il progetto materializzandolo in becero terrorismo. Comunque sia, quel fenomeno venne circoscritto e sconfitto anche se in molti portano tutt’oggi i segni di quella lotta, specie appartenenti e familiari delle Forze dell’Ordine e delle Istituzioni.
Viceversa, la “trattativa” con i mafiosi, non avrebbe portato alla loro resa e quindi sconfitta ma solo a porre termine a una serie di violenze (stando a quello che ci hanno detto) mentre il fenomeno avrebbe continuato a proliferare ed esistere. Quindi un accordo che oltre a sgomentare, non paga.
Al di là di qualunque valutazione, di qualunque esito processuale, di qualunque verità detta o taciuta, questa vicenda rimarrà per sempre un misfatto. Uno Stato che si guarda dentro, si giudica e si rivela sconfitto.
Ma questo non vale per i “figli della Trattativa”. Incensati, promossi, riciclati. E questo crea un sentito disagio, specie tra gli uomini in divisa che ogni giorno con impegno e sacrificio, debbono difendere questo nostro bellissimo Paese, ritenendo tali attribuzioni incomprensibili e assolutamente non plausibili.Come si fa ad affidare incarichi di elevato spessore e delicatezza a chi è sospettato di aver nascosto o taciuto delle verità, a trasformare in metalmeccanico un poliziotto, a dare fiducia ai politici che hanno tradito il loro elettorato.
Fenomenologia meglio illustrata da Sabina Guzzanti, in una puntata di “Servizio Pubblico” che affrontava il tema del disagio collegandolo anche alla “trattativa”, la madre che genera la disubbidienza, il disfattismo e la convinzione dell’impunibilità. Ecco quindi che non si rispettano le sentenze, non si osservano le leggi, si oltraggiano le divise, non ci si ferma all’alt, si scorazza con moto senza protezioni, non si avverte la presenza dello Stato. In quella stessa trasmissione, per affrontare e analizzare il fenomeno della disubbidienza, il conduttore aveva invitato anche uno scrittore, ex magistrato, cresciuto nella zona bene della sua città, che invece di argomentare in merito, ha discettato intellettualmente, divagando. A ricondurre in carreggiata il tema, ci ha pensato un giovane ex camorrista di Caivano che con poche e semplici parole, ha spiegato cosa manca in quei territori. L’uso della terminologia spicciola dunque, per far capire.
E per meglio far capire le modalità e le condotte che hanno originato la “trattativa” ecco il verbo più consono: ‘ndranghietare, ovvero modi di pensare e di agire. Ci aveva pensato già negli anni cinquanta, lo scrittore calabrese Saverio Strati che lo aveva coniato, un termine che in assoluto mancava alla mafia e che esplicita tutta la sua forza ed efficacia. E con lo stesso spirito il richiamo ad un estratto de “La Torre Saracena” (ABEditore 2014) i cui riferimenti sono chiari e diretti.
«Qui la chiamano ‘Ndrangheta! Ma è all’area grigia che dobbiamo volgere il nostro sguardo, zona da disinfestare e ove si annidano le vipere con un piede nello Stato e l’altro nell’Antistato, di giorno col culo sprofondato sugli scranni di uffici e consigli istituzionali e di sera nelle poltroncine dei locali ove incontra il malaffare, accompagnati da donne truccate e ingioiellate che avvertono lo sporco ma non sentono l’olezzo, perché vivono di lacca, smalto e lucida labbra».