Le immagini di qualunque cosa, animata o meno, piena di buchi vi crea un enorme fastidio tanto da avere una propria fobia? Allora soffrite di tripofobia, cioè la paura dei buchi. Nonostante non sia ancora stata classificata a livello ufficiale come fobia, si tratta di una delle paure più diffuse, anche se tra le meno note. La sua diffusione è legata al web e in particolare a una foto, poi rivelatasi un fotomontaggio, diventata virale nel 2003, prima via mail poi su diversi siti, del seno di un’antropologa infettato dalle larve in Sudamerica. L’immagine era un falso ma non la fobia dei buchi che è letteralmente esplosa, attirando l’attenzione degli scienziati, ora impegnati a definirla e soprattutto a capirne le cause.
Della tripofobia non si sa molto a livello clinico. Tutto sembra essere nato sul web e legato alla rete: l’immagine virale ha innescato la nascita di pagine Wikipedia e siti dedicati alla paura dei buchi in un processo di condivisione continua per cui le persone che soffrono di tripofobia hanno scoperto di non essere sole, come magari hanno pensato per anni.
Anche il nome tripofobia (dal greco “trypos”, buchi), è recente. Come ha ricostruito Sarah Emerson per Motherboard, il termine fu usato per la prima volta il 5 maggio 2005 in una pagina internet, “A Phobia of Holes“, il cui webmaster avrebbe contattato l’Oxford English Dictionary per farlo accettare come nuova parola.
L’esplosione del fenomeno con numeri davvero ragguardevoli è però sintomo della reale diffusione della fobia tra la popolazione: sempre più persone scoprono di avere la fobia dei buchi e di non riuscire a guardare immagini di oggetti, piante o altro, con un gran numero di buchi.
Le cause della tripofobia non sono ancora state ufficializzate. Al momento, lo studio più completo risale al 2013 ed è firmato dagli psicologi Arnold Wilkins e Geoff Cole del Centre for Brain Science dell’università di Essex. Nel loro “Fear of Holes”, letteralmente paura dei buchi, i due scienziati mettevano in correlazione le immagini dei buchi con lo spettro visivo di alcuni dei predatori più velenosi al mondo, e quindi pericolosi per l’uomo.
In pratica, secondo gli studiosi, l’uomo avrebbe introiettato lo schema visivo di alcuni elementi potenzialmente letali, come i serpenti velenosi ma anche macchie cutanee foriere di pestilenze mortali: riconoscendole in oggetti comuni, in molti soggetti scatterebbe un meccanismo di autodifesa che sfocerebbe nella fobia.
In particolare, la tesi di Wilkins, riportata in un articolo dello scorso anno, riguarda la presenza di pattern matematici, di difficile comprensione, all’interno delle immagini in questione.
“Sembra che siano schemi di questo genere a muovere emozioni spiacevoli: immagini con queste caratteristiche richiedono un maggiore impegno del cervello, per essere elaborate. Richiedono, senza uno scopo razionale, più ossigeno: un lavoro inutile, che crea disagio“, scrisse lo psicologo, ricordando che “il cervello utilizza circa il 20% dell’energia del corpo e il suo utilizzo energetico deve essere mantenuto al minimo“.
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