Il mare intorno alle aree in cui operano le trivelle in Italia è inquinato: a dirlo per la prima volta in maniera ufficiale è un rapporto di Greenpeace intitolato ‘Trivelle fuorilegge’ pubblicato nei primi giorni del mese di marzo 2016, ad un mese circa dal referendum che chiederà ai cittadini di esprimersi in maniera definitiva sulla ricerca di idrocarburi al largo delle nostre coste, un piano energetico fortemente contestato da Regioni, ambientalisti e associazioni di cittadini. Tracce di sostanze chimiche fortemente nocive sono state riscontrate in una soglia ben oltre i limiti previsti dalla legge in cozze e sedimenti, in prossimità delle piattaforme presenti nel mare Adriatico e nelle altre zone dove operano le famigerate trivelle.
Sono oltre trenta le trivelle monitorate dall’associazione, e i dati elaborati dal rapporto Greenpeace mostrano una contaminazione ben oltre i parametri normativi per almeno una sostanza chimica pericolosa nei tre quarti dei sedimenti marini vicini alle piattaforme, in crescita costante dal 76 per cento registrato nel 2012 fino al 79 per cento nel 2014, mentre per due sostanze oltre i limiti abbiamo percentuali che arrivano fino al 67 per cento dei campioni analizzati nel 2014. Non va meglio quando parliamo di cozze, in cui emerge la contaminazione da metalli pesanti ed altre sostanze dannose per la salute, come spiega Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace: ‘Il quadro che emerge è di una contaminazione grave e diffusa. Laddove esistono dei limiti fissati dalla legge, le trivelle assai spesso non li rispettano. Ci sono contaminazioni preoccupanti da idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti, molte di queste sostanze sono in grado di risalire la catena alimentare fino a raggiungere gli esseri umani‘.
Lo scorso luglio Greenpeace aveva chiesto al ministero dell’Ambiente di poter avere accesso ai dati di monitoraggio delle piattaforme presenti nei mari italiani: l’ente ha fornito i dati di monitoraggio di 34 impianti, relativi agli anni che vanno dal 2012 al 2014, dislocati davanti alle coste di Emilia Romagna, Marche e Abruzzo, ma sono oltre 100 le piattaforme operanti di cui manca la documentazione necessaria, e non è l’unica opacità segnalata da Greenpeace: ‘I monitoraggi sono stati eseguiti da Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, un istituto di ricerca pubblico sottoposto alla vigilanza del ministero dell’Ambiente, su committenza di Eni, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine. In pratica l’organo istituzionale chiamato a valutare i risultati del monitoraggio sul mare che circonda le piattaforme offshore, e di conseguenza verificare la non sussistenza di pericoli per l’ambiente e gli ecosistemi marini, opera su committenza della società che possiede le piattaforme oggetto d’indagine, cosicché il controllore è a libro paga del controllato‘, denuncia l’associazione ambientalista. Basta comunque questa piccola porzione di dati a far scattare l’allarme sulle conseguenze delle trivellazioni al largo delle nostre coste, che liberano sostanze associate a patologie gravi come il cancro, senza che il governo finora sia intervenuto a tutela della salute e dell’ambiente: ‘La situazione si ripete di anno in anno ma ciò nonostante non risulta che siano state ritirate licenze, revocate concessioni o che il ministero abbia preso altre iniziative per tutelare i nostri mari‘, è l’amara conclusione di Ungherese, e non resta che affidarsi alla consultazione popolare per mettere dunque fine alla trivellazioni inquinanti al largo dei nostri mari.
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