Le donne troppo spesso arrivano in burnout: finiscono cioè per esaurirsi, nel senso letterale del termine. Del resto, a ognuna di loro è richiesto di saper essere una moglie perfetta, dove per perfetta si intende che sappia cucinare, lavare, stirare e che sappia quindi prendersi cura del suo uomo in tutti i sensi esistenti al mondo, una madre amorevole che non sbaglia mai, perché se lo fa vede cadersi addosso una pioggia di critiche da chiunque, una lavoratrice impeccabile, che sappia coniugare però la sua professione alla famiglia, perché non sia mai che possa pensare di trascurare uno per portare avanti l’altro oppure che possa non eccellere in una delle due, perché quello potrebbe essere visto come un fallimento. Questo è ciò che accade quotidianamente alle donne in tutto il mondo, ma perché? Lo ha spiegato la psicologa e fondatrice del Centro Tice Francesca Cavallini.
Sulle donne incombe quotidianamente la nuvola della pressione sociale, di cui si parla troppo poco sempre. “E quando ti sposi”?, “Hai 30 anni, quando ti muovi a fare un figlio?”, “Guarda che l’orologio biologico continua a ticchettare, devi mettere su famiglia il prima possibile”. Queste sono solo alcune delle frasi che moltissime donne, arrivate intorno ai 30 anni, si sentono ripetere continuamente. Ma attenzione: quando poi la donna si sposa, mette al mondo dei figli, non cessano di esistere, si trasformano semplicemente in osservazioni, commenti non richieste, critiche più o meno esplicite. “Ma come cresci tuo figlio”, “Come fai a lavorare e badare alla famiglia”, “Che donna sei se non fai trovare ogni sera a tavola a tuo marito la cena?”. E potremmo continuare all’infinito. Il risultato è troppo spesso il burnout: si stima che circa il 40% delle donne nel corso della loro vita lavorativa, cadano in questo schema che inizia con la smania di essere perfette in tutto e finisca con uno stress estremo, eccessivo, che arriva a livelli altissimi.
Oggi è la festa della donna, ma attenzione: non festeggiate per favore. Non fatelo se appartenete alla “categoria”, ma neanche se siete uomini. Non fatelo, perché non ha alcun senso farlo e non vi parleremo dell’origine di questa giornata (tanto ormai la conosciamo tutti e se dovesse esservi sfuggito qualcosa, non c’è bisogno del nostro apporto, basta consultare qualsiasi sito esistente in Italia per scoprire tutto): il problema è a monte. Ci spieghiamo meglio: oggi non dovremmo festeggiare semplicemente perché non c’è nulla da celebrare.
Sì, perché alle donne è richiesto di essere mogli, madri, lavoratrici. Eppure su quest’ultimo punto abbiamo tanto da dire: nonostante provino a fare tutto, non riescono a farlo “al meglio”, non perché non ne abbiano le capacità, ma perché non hanno le possibilità giuste. Ci spieghiamo ancora meglio: (dati emersi dal Gender Policies Report 2022 alla mano), il tasso di disoccupazione femminile è al 9,2% – contro il 6,8% di quello maschile e aumenta ancora di più tra i giovani tra i 15 e i 24 anni, in cui ai aggira intorno al 32,8 per le ragazze e al 27,7% per i ragazzi.
E ancora, il tasso di inattività delle donne è del 43,3 % contro il 25,3% di quello degli uomini. Ma non finisce neanche qui, perché l’universo femminile, a quanto pare, è fatto di lavori part-time, stipendi bassi, poche possibilità di crescita: quasi la metà di loro – il 49% per essere precisi – lavora a tempo parziale. Quanti uomini lo fanno? Quasi la metà (il 26,2% esattamente). E considerate che il 51,3% di questi contratti è a tempo indeterminato: no, non è affatto un’ottima notizia, perché lavorare per tutta la vita con questa formula significa essere destinate ad avere una pensione bassissima.
Questa in alcuni casi è una necessità – vedi donne che devono badare ai figli, alla casa e che devono fare tutto (quasi completamente) sole perché hanno mariti/compagni poco collaborativi – in altri è una scelta obbligata, perché semplicemente non trovano di meglio e, per non restare completamente ferme, decidono di accogliere l’unica possibilità che hanno. Triste, vero? Sì, ma è la realtà.
Ma continuiamo pure, perché se pensate che almeno le poche che lavorano possano ambire a ruoli apicali esattamente come i loro colleghi maschi, vi sbagliate di grosso. Basti pensare che la percentuale di donne Ceo in Italia è scesa nel 2021 al 3%, come emerge da uno studio europeo presentato da Ewob, l’associazione European Women on Boards.
Potremmo continuare all’infinito, ma ci fermeremo qui, perché non vale la pena infierire, ma vale la pena riflettere, capire cosa accade davvero, non solo in Italia, ma in tutto il mondo.
Alle donne è richiesto di essere mogli, madri, lavoratrici, dicevamo. Ma a che prezzo? Quello che pagano quotidianamente per voler essere tanto, troppo. Per voler assecondare tutti, accontentare tutti. Per voler dimostrare – a sé stesse e al mondo circostante – di poter fare tutto ciò che desiderano, senza limiti. Ma, soprattutto, perché a volte non hanno altra scelta. E così finiscono in burnout.
Ma soffermiamoci pure su questo termine: “to burn out” in inglese significa letteralmente “bruciarsi”, “esaurirsi”. Come una candela che pian piano finisce per diventare nulla, oppure come una macchina che cammina troppo e il cui motore ad un tratto si fonde, allo stesso modo capita di arrivare a un punto in cui la smania di portare a termine ogni compito di traduce in uno spegnimento immediato del meccanismo che regola la propria quotidianità.
In psicologia, infatti, con burnout si indica uno stato di esaurimento emotivo, fisico e mentale, che in genere è associato al lavoro. Sì, ma qual è quello della donna? Perché non pensate che essere madri, occuparsi di un’intera casa, di una famiglia non lo sia. Solo che questo è un lavoro che non conosce ferie, pause, non ha una retribuzione e spesso non viene neanche riconosciuto come tale e così chi lo fa ogni giorno finisce per non veder neanche riconosciuti i suoi sforzi.
Pensate che nel 2023 quando a compierlo è un uomo ancora viene definito mammo, perché il papà e la mamma ancora oggi nell’immaginario comune dovrebbero avere una collocazione diversa nella vita di un bambino e dovrebbero avere compiti differenti. E così quando svolgerli è il primo, è visto quasi come un eroe, quando invece è la seconda è vista come una donna “qualsiasi” che porta a termine i suoi compiti quotidiani.
Qual è il risultato di tutto ciò? L’essere multitasking conduce spesso al cosiddetto burnout. Ne ha parlato il Women Camp 2023, l’unico evento in Europa dedicato alle donne che lavorano nel Terzo Settore, tenutosi al Museo Nazionale dell’Automobile di Torino, in seguito al quale una delle speaker, la psicologa e fondatrice del Centro Tice Francesca Cavallini, ha raccontato esattamente cosa accade alle donne quando l’equilibrio (a volte precario) su cui sono abituate a viaggiare lascia spazio all’esaurimento e poco altro.
La psicologa e fondatrice del Centro Tice Francesca Cavallini, parlando con Vanity Fair, ha spiegato cosa accade esattamente alle donne quando finiscono in burnout. E, fidatevi, accade molto più spesso di quanto si immagini: basti pensare che circa il 40% di loro almeno in un periodo della loro vita lavorativa si sentono stressate ai massimi livelli e lo dimostrano diverse ricerche condotte negli anni.
Una delle tante domande che sorgono spontanee a questo punto è: come fare a capire di essere arrivata al limite? Esistono diversi segnali di allarme. Come ha specificato la Cavallini questi “sono fisici (stanchezza e irritabilità), mentali (si pensano sempre gli stessi pensieri, negativi, in modo quasi ossessivo) ed emotivi (c’è meno piacere nel fare le azioni quotidiane e quelle legate al lavoro)”.
Sia chiaro: non è neanche detto che l’esaurimento si ripercuota sulle performance. Ci sono persone – siano queste donne, oppure uomini – capaci di lavorare per lunghi periodi anche in burnout senza veder calare i loro risultati quotidiani (se di risultati si può parlare).
E qui si apre un altro lunghissimo capitolo: a volte le donne sono portate a gettare la spugna e a rinunciare alle loro ambizioni. Ma perché lo fanno? Dipende. Nel senso che tutto dipende dalla loro forma mentis, da come sono state cresciute, da come sono abituate a ragionare. Come la stessa Cavallini si è chiesta (e le sue domande sono le stesse che ci poniamo tutti da tempo immemore): “Quanto spesso si educano le donne a sognare di riuscire? O quante volte si insegna alle donne a chiedere aiuto?”. Questo è un punto su cui vale la pena riflettere (ma ci torneremo dopo).
Una precisazione è doverosa: c’è una differenza sostanziale tra donne e uomini. E no, non nella loro indole, nella loro essenza, nella loro mente, ma nella genesi del loro stress. Come ha spiegato la psicologa: “Mentre le fonti di lavoro sembrano essere i principali precursori del burnout negli uomini, i predittori del burnout delle donne includono variabili sia lavorative che familiari come il conflitto di ruolo e la soddisfazione coniugale, nonché lo stress lavorativo. La diversa importanza del lavoro e della casa come fattori di stress negli uomini e nelle donne è sostenuta da una struttura sociale che continua ad assegnare alle donne (indipendentemente dal loro status lavorativo) la responsabilità primaria della casa e della famiglia”.
Sembra questo un quadro a dir poco “non idilliaco” (e in realtà è così eccome), ma niente paura: a tutto c’è una soluzione. E infatti esiste un rimedio contro la perdita di motivazione e si chiama supporto sociale. Questo è lo strumento attraverso cui è possibile continuare a percorrere la propria strada – lavorativa e personale – senza interruzioni. Peccato solo che non sempre sia presente, ma su questo non possiamo aggiungere altro, perché dovremmo sradicare la mentalità arcaica che vige ancora oggi nel mondo (e chiaramente non possiamo farlo). La buona notizia, però, è che in compenso a questo possiamo aggiungere delle strategie da mettere in atto ogni giorno, come ad esempio iniziare a lavorare non per obiettivi, ma per valori, così da ricordarsi sempre che tutto ciò che facciamo non fa altro che soddisfare alcuni di questi e, quindi, può appagarci a prescindere dal risultato finale, dal riconoscimento e così via.
Infine vi è un altro fattore da considerare: bisogna essere capaci di prendersi i propri spazi in casa, in famiglia. Per farlo, è necessario “da un lato tollerare di perdere il controllo, dall’altra imparare a chiedere aiuto senza viverlo come un fallimento”. Chiedere aiuto, urlare questa parola quando è necessario, è la chiave davvero, nel vero senso della parola.
Non abbiate paura di farlo, che siate donne, uomini, ragazzini. Fatelo per salvarvi quando siete in burnout, ma anche quando semplicemente non sapete come uscire dalle situazioni che vi “capitano”. Fatelo per il vostro benessere, per la vostra tranquillità, per vivere la vostra vita al meglio. Non pensate mai che farlo possa essere un segnale di debolezza, perché in realtà è l’esatto contrario: ci vuole molta forza per poterlo fare. Quindi fatelo ogni volta che ne avete bisogno, perché spesso questo è l’unico modo per andare avanti.
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