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Trump licenzia il ministro della Giustizia che non ha difeso il bando contro i musulmani

Donald Trump non si fa piegare dalle proteste anzi, raddoppia, arrivando a licenziare il ministro della Giustizia ad interim, Sally Yates, colpevole di non aver difeso il bando contro gli immigrati nei tribunali. La mossa, inusuale ma non inedita, chiarisce ancora una volta che il neo presidente non intende indietreggiare di un passo dalle sue decisioni e che è pronto a tutto pur di andare avanti nel suo piano, anche a licenziare un ministro. A cadere è infatti la Yates, unica superstite dell’amministrazione Obama a cui lo stesso Trump aveva chiesto di rimanere in attesa del voto del Senato su Jeff Sessions. La decisione arriva perché la Yates ha deciso di non difendere il bando nei tribunali in cui è già arrivato per le cause intentate davanti ai giudici federali dalle prime vittime: un affronto che il tyconn diventato presidente non ha tollerato.

Non solo. Trump ha anche licenziato il capo del Dipartimento Immigrazione e dogane, Daniel Ragsdale, anche lui ad interim ed ex dell’amministrazione Obama che lo nominò nel 2012. Il segretario alla Sicurezza interna, John Kelly, ha reso noto che sarà sostituito da Thomas Homan che “opererà per l’applicazione delle leggi sull’immigrazione sul territorio degli Stati Uniti, in conformità con i nostri interessi nazionali”.

Il licenziamento della Yates ha dato il colpo finale a quello che rimaneva del suo predecessore. Al suo posto arriva Dana Boente, procuratore distrettuale del distretto Est in Virginia, anche in questo caso ad interim, in attesa della ratifica di Session.

Il comunicato, diffuso anche sui social network del presidente, è chiaro. La Yates “ha tradito il Dipartimento di Giustizia” perché non ha rispettato un ordine “deciso per proteggere i cittadini degli Stati Uniti”, sottolineando come sia stata “nominata dall’amministrazione Obama che è stata debole nei controlli ai confini e molto debole sull’immigrazione illegale”.

La polemica riguarda la Yates che, con un gesto più simbolico che altro, visto l’incarico a interim, aveva dichiarato la sua opposizione verso il bando, chiarendo che non lo avrebbe difeso in tribunale perché non corrispondente “al solenne obbligo di questa istituzione di cercare sempre la giustizia e schierarsi per ciò che è giusto”.

“Sono responsabile dell’assicurare che le posizioni assunte in tribunale siano coerenti con l’obbligo solenne dell’istituzione di cercare la giustizia. Al momento, non sono convinta che la difesa del decreto sia in linea con queste responsabilità e non sono convinta che il decreto sia legale“, aveva dichiarato la Yates, scatenando così la reazione di Trump.

Il licenziamento è l’occasione per ribadire la sua posizione e difendere il bando. “È giunto il momento di fare sul serio per proteggere il nostro paese. Avere un controllo più severo per i privati che viaggiano da sette paesi pericolosi non è una cosa estrema. È ragionevole e necessaria per proteggere il nostro paese”, ha ribadito nella nota.

L’attacco di Trump è duplice e un po’ confuso. Il neo presidente ha infatti difeso il suo operato, dichiarando che anche Obama fece la stessa cosa nel 2011 (anche se, come abbiamo visto, non è vero), per poi attaccare l’operato del suo precedessore ritenuto “debole” nei confronti dell’immigrato. Per di più, ha voluto sottolineare che i democratici starebbero bloccando le nomine del suo staff, come nel caso di Sessions, ed era solo questo il motivo per cui la Yates era ancora al suo posto, non ricordandosi che anche al Senato i repubblicani (in teoria il suo partito) hanno la maggioranza.

Prima di lui, solo un altro presidente aveva licenziato il ministro della Giustizia. Richard Nixon si rese protagonista della vicenda passata alla storia come il Saturday Night Massacre, il massacro del sabato sera, quando il 20 ottobre 1973 licenziò il procuratore speciale Archibald Cox, a capo delle indagini sui nastri dello scandalo Watergate, dopo avergli chiesto, tramite il Procuratore generale Elliot Richardson, di lasciar cadere la sua citazione in giudizio, obbligando alle dimissioni Richardson e il suo vice William Ruckelshaus.

Nel frattempo, anche in Gran Bretagna esplodono le proteste contro il decreto di Trump e la sua visita in programma nel paese. In tanti sono scesi per strada nelle maggiori città dell’isola, chiedendo a Theresa May di non incontrarlo: una petizione lanciata contro il viaggio di Trump ha raccolto oltre un milione di firme. Inutili però le proteste: la premier ha infatti ribadito di essere “felice” di ospitare il presidente americano pur non condividendo le sue politiche.

Lorena Cacace

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