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La deriva è sempre la stessa: da un lato chi liquida la questione con un cinico «se l’è cercata» e dall’altro chi, invece, si convince che quel carabiniere sia il solito “sceriffo dalle pistolettate facili”. La necessità di trovare una giustificazione, e forse anche un po’ di conforto, di fronte alla morte di un ragazzo di neanche 17 anni, ucciso da un altro ragazzo di appena 22, porta a voler individuare dei colpevoli di questa tragedia. Se, però, capire come siano andati realmente i fatti, individuare eventualità responsabilità e punirle è sacrosanto, dividersi in fazioni, filo vittima o filo carnefice, diventa una speculazione. Poi, come sempre, spunta chi per evitare di sbagliare fazione sentenzia: «è colpa della città». Quasi come se la città, qualunque essa sia, abbia avuto la capacità di personalizzarsi, armare il carabiniere e uccidere il quasi 17enne.
Un carabiniere dovrebbe essere sempre in grado di gestire l’emotività e perfino la paura e di sicuro l’agente in servizio al rione Traiano di Soccavo, alla periferia di Napoli, non se n’è dimostrato capace. Questo, però, non fa di lui un esempio di polizia violenta e soprattutto non lo rende paragonabile – così come molti stanno facendo – agli assassini di Federico Aldrovandi o ai torturatori della Caserma Bolzaneto di Genova. Secondo la ricostruzione dell’omicidio, è un ragazzo che ha perso il controllo in una situazione concitata come può essere un inseguimento in auto, non un agente che ha voluto esprimere il proprio potere, la propria forza data dalla divisa.
Analizzando invece la breve biografia di Davide Bifolco emergono cattive, forse pessime, frequentazioni. A bordo di quel motorino con cui non si è fermato all’alt dei Carabinieri era con un pregiudicato e un latitante, lo scooter non era il suo ed era perfino privo di assicurazione. Questo, però, non fa di Davide un pericoloso criminale e nemmeno un camorrista in fieri. Fa piuttosto di Davide un giovane cresciuto in un contesto sociale sbagliato, che non gli ha permesso di discernere il giusto dallo sbagliato, di selezionare le frequentazioni.
Vivere in un contesto sociale sbagliato, però, non vuol dire vivere in una città sbagliata. Se lo stesso avvenimento fosse avvenuto in un qualsiasi altro posto, non si sarebbe criminalizzata la città così come si sta facendo ora che è avvenuto a Napoli. Forse perché Napoli è una città criminale? No, perché se fosse avvenuto a Quarto Oggiaro, alla periferia di Milano, si sarebbe criminalizzato il quartiere, piuttosto che la strada o addirittura il palazzo.
Criminalizzare il luogo in cui avviene una tragedia, vuol dire infatti sollevarsi dalle responsabilità per le condizioni in cui si vive in quel luogo. Riconoscere, invece, che è il contesto sociale a essere sbagliato, vorrebbe dire ammettere che si è lasciato che lì si venisse a creare quella situazione di degrado e che si potrebbe fare ancora qualcosa per legalizzarla. Qualcosa che, forse, non si vuole fare.
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