La scena degli istituti di certificazione si va affollando, i protocolli di riferimento si moltiplicano. La certificazione o l’adesione ad un protocollo di green economy rischia di diventare un business tecnico a spese di chi vuole farsi casa con attenzione ai problemi di sostenibilità ma anche con un minimo di senso pratico. C’è una direzione per orientarsi nell’ambito della vasta offerta di filosofie costruttive e di classificazione degli edifici che stiamo realizzando e che saremo chiamati a realizzare in futuro? Quale potrebbe essere la direzione, la rotta verso cui indirizzare innanzitutto la riflessione, e poi le nostre decisioni operative, un obbiettivo di logicità complessiva nel ciclo della costruzione?
La rotta potrebbe essere quella di un protocollo che non dilazioni nel tempo gli obbiettivi da raggiungere seminando l’inconfessata sensazione che noi avanti tutta così, sarà chi arriva dopo di noi a pagare il conto, a prendersi carico delle nostre regole girate al futuro, e ad ogni appuntamento sui problemi del clima ci si potrà presentare con una serie infinita di argomenti per dilazionare, abbassare, attenuare, diluire gli impegni già sottoscritti con ogni solennità nei protocolli precedenti.
Potrebbero non esistere soluzioni furbe, scorciatoie , soluzioni smart, come si usa dire, con uno pseudo acronimo a metà tra small e short, ovvero furbe. La furbizia potrebbe non essere una categoria dell’intelligenza, potrebbe non produrre la soluzione ma solo situazioni dilatorie di uno stato di illogicità sistemico.
Esistono protocolli e normative, parametri che definiscono efficienza energetica degli involucri e delle stratigrafie orizzontali e verticali degli edifici, protocolli che definiscono parametri di filiera, di impatto, di opportunità e di buon senso. Alcuni istituti, sia pubblici che privati hanno fatto un lavoro magnifico, sia di ricerca che di divulgazione, uno per tutti, Klimahaus, in Italia, cui vanno ascritti meriti davvero notevoli. La rotta che dovremmo cercare di tracciare non dovrà collidere con quanto è stato fatto finora, non discute quanti siano i chilometri oltre i quali la filiera non è più corta, o se dopo la Golden Class si possa aspirare ad una Platinum o ad una Diamond, a una Heaven Class.
L’ipotesi posta sul tavolo è questa.
Quando costruisci affronti dei costi finanziari, ovviamente, che onori pagando i tuoi fornitori. Ma non fai fronte ad altri costi, quelli dell’impatto energetico prodotto a monte, dell’impatto sull’ecosistema che la costruzione produrrà nel corso del suo ciclo complessivo, da quando a monte si allestiscono i materiali che serviranno a realizzarlo, dall’impegno energetico necessario a trasferirli ed assemblarli in situ, dall’impegno energetico che comporterà complessivamente nel corso del suo esercizio, con riferimento ad acqua, gas di rete (fino a quando almeno non ci allineeremo ai paesi più virtuosi dove, come in Danimarca, sono già stati messi fuori legge per le nuove costruzioni, i combustibili fossili), l’alimentazione elettrica, il trattamento dei reflui e dei rifiuti, la demolizione e lo smantellamento alla fine della sua vita, lo smaltimento dei materiali di demolizione.
Valutiamo questi oneri non dichiarati, questi debiti sconosciuti, sottovalutati od occultati, e facciamo in modo che nell’arco di esercizio del fabbricato questi vengano azzerati. Potrebbe non volerci molto a parametrare quanto incide in emissione di Co2 per kilowattora una piastrella quando arriva in cantiere conglobando l’impegno energetico per la cava di estrazione dei materiali di base, il montante per alimentare i forni di cottura, gli oneri di imballaggio e la spesa per il trasporto nel cantiere posto a quella certa distanza dallo stabilimento di produzione. Quel debito energetico può essere risarcito, a meno ammonta e meno mi peserà risarcirlo, e sarà mio interesse selezionare a questo punto l’azienda più prossima o che ha adottate politiche produttive meno energivore.
Io conservo la libertà di decidere in che termini assumermene l’onere, fermo restando l’obbligo di pareggio energetico complessivo. A maggior debito per basse performances dell’involucro, o costosità energetica dei materiali, o scarsa efficacia del trattamento ad esempio delle acque utilizzate nell’edificio corrisponderà un aumento del montante di approvvigionamento energetico autonomo di cui dovrò dotare l’edificio che vado a realizzare. E questo a scala di condominio o di isolato, o di quartiere.
Ed infine di città.
Magari decido che è ora di pensare che ci sia un modo di vivere, di costruire case e città che profili il ricordo di un mondo descritto non solo dai poeti o dai bambini, ma anche da Chi ispirò quel Libro magnifico in cui si parla di Eden, di una felicità implicita e sostanziale, in sintonia con chi mi abita vicino e con chi è destinato a succedermi nel dipanarsi delle generazioni, con chi potrebbe di qui a pochi anni guardarmi se non altro con cruccio per le disattenzioni, per gli egoismi, per le omissioni, per l’ignavia e la pigrizia.
E lavorare ad un modo gentile e discreto di stare sul pianeta, quasi in punta di piedi, usando con parsimonia quello che ci occorre, pronti a darlo indietro quando andremo via, quando avremo fatto il nostro lavoro. Stipulando un patto etico, un patto di lealtà verso gli uomini che erediteranno la Terra, perché generazione dopo generazione possano continuare a smagarsi dell’aria tersa del mattino, dell’infinita varietà dei pesci e degli uccelli, del silenzio delle foreste, della magia e della misteriosità insondabile del mare, delle stelle che attraversano serene e indifferenti il blu profondo delle quiete notti d’estate. Duemila e settecento anni or sono, appena un centinaio di generazioni prima di noi, un poeta greco poteva guardare all’alba il cielo d’oriente e smagarsi dell’ “…Aurora dalle dita rosate…”.
Sarebbe bello se lavorassimo con passione a preservare per altre cento generazioni quella stessa possibilità d’incanto, quello stesso colore del cielo.
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