Un “bravo ragazzo di vent’anni“, distrutto dal dolore o un giovane spavaldo che non si era pentito e sgommava in motorino davanti all’uomo che aveva reso vedovo? La tragedia di Vasto, se possibile, diventa ancora più dolorosa. L’opinione pubblica ha applaudito a Fabio Di Lello, il 32enne che ha ucciso a colpi di pistola Italo D’Elisa, 22 anni, il ragazzo che aveva investito e ucciso la moglie, Roberta Smargiassi, 34 anni. Il plauso è più o meno unanime, sui social, in radio, in tv, nelle discussioni al bar: il pensiero non corre alla famiglia di Italo che ha visto morire un figlio di vent’anni. “Ha ucciso un morto“, ha dichiarato il padre, Angelo D’Elisa, intervistato da Repubblica. “Non si era mai pentito“, è invece la versione ripetuta dal legale della famiglia di Di Lello, l’avvocato Giovanni Cerella.
Sul caso è intervenuto anche il vescovo di Vasto-Chieti, monsignor Bruno Forte, secondo cui la morte di Italo si poteva evitare “con un intervento rapido della giustizia e una punizione esemplare”. “La magistratura deve fare il suo corso ma nel modo più rapido possibile. Una giustizia lenta è un’ingiustizia“, ha commentato all’Adnkronos. “Non c’è vendetta che può essere ritenuta giustizia. La vendetta produce sempre frutti dannosi, è un atto immorale”, ha poi aggiunto.
Il dibattito sul caso di Vasto sta mettendo in luce un pensiero che spesso striscia nei pensieri di molti italiani, quel concetto di “occhio per occhio, dente per dente” che è l’esatto opposto di un paese basato su regole democratiche. L’emotività prende il sopravvento sulla realtà e le vittime diventano mostri.
Nella realtà, c’è una famiglia distrutta due volte, quella di Italo D’Elisa, il giovane che aveva investito la moglie del suo assassino. Sul web e non solo si rincorrono diverse ricostruzioni dell’incidente che costò la vita alla donna: l’inchiesta era in corso, il processo doveva iniziare a breve e dalle prime ricostruzioni trapelate sembra appurato che il ragazzo non correva a forte velocità e che passò col rosso, colpendo lo scooter di Roberta. “La rivedeva tutte le notti, quella donna. Quelle immagini, quella scena orrenda non si dimenticano“, racconta a Repubblica il padre, Angelo. L’uomo, conferma l’inviato, è una “maschera di dolore”: lui e la moglie lo avevano visto per pranzo: aveva preso la bicicletta per fare un giro e “prendere una boccata d’aria”, spiega l’uomo, per “uscire un po’”.
Non ce la faceva più, ripete l’uomo: l’incidente gli aveva distrutto la vita. “Stava male, malissimo. Chiunque di noi se si trovasse in una situazione così tragica come starebbe? È un inferno. Aveva paura a uscire di casa. Si era chiuso in se stesso, poi un giorno mi ha detto: non ce la faccio più, voglio uscire, ho bisogno di aria”, prosegue.
Nelle sue parole, Italo diventa un ventenne con la passione per i Vigili del Fuoco, la voglia di andare ad aiutare anche nelle zone del terremoto e l’impossibilità di muoversi, per il pensiero di quello che era successo e perché non aveva più la patente. Impossibile, per questo, che sgommasse davanti a Fabio Di Lello con il motorino: non l’aveva, insiste il padre, ed era anche senza patente dal giorno dell’incidente.
Oltre al rimorso, Italo doveva convivere con la macchina dell’odio. “Lo hanno lasciato solo, e si sono divertiti alle sue spalle sui social network”, se, come racconta l’uomo, “il sito in cui lo attaccavano con parole orribili aveva 1500 adesioni, tantissime in una cittadina come Vasto da 40mila abitanti”.
Come famiglia, avevano scritto una lettera ai cari di Roberta, per esprimere il loro dolore, ma, dice, non gli hanno mai risposto.
Lo striscione che campeggia ancora oggi davanti alla panetteria di Di Lello
Diverso se non opposto, il ritratto di Italo nelle parole dell’avvocato Giovanni Cerella, già legale di parte civile per il procedimento che riguardava l’incidente, e ora difensore di Fabio Di Lello. “Italo D’Elisa, dopo aver ucciso Roberta, nell’incidente, non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento. Anzi, era strafottente con la moto. Dava fastidio al marito di Roberta. Quando lo incontrava, accelerava sotto i suoi occhi”, ha raccontato il legale ai microfoni di Radio Capital.
Secondo l’avvocato, il giovane “tre mesi dopo l’incidente aveva ottenuto il permesso per poter tornare a guidare la moto, perché gli serviva per andare a lavorare”.
“Fabio era sotto shock, era depresso per la perdita della moglie, andava molto spesso al cimitero. Pensava che giustizia non fosse stata fatta ma incontrandolo non ho mai avuto l’impressione che stesse ipotizzando una vendetta. Sono rimasto sbalordito quando ho saputo. Lui non aveva dimestichezza con le armi”, ha aggiunto. Il dettaglio è importante: Di Lello rischia moltissimo se l’accusa chiederà il processo per omicidio volontario con l’aggravante della premeditazione ed è per questo che il suo legale insiste su questo aspetto.
Infine c’è la tesi difensiva di D’Elisa sull’incidente, ricordata dallo zio del giovane, secondo la quale al momento dell’incidente Roberta Smargiassi avrebbe indossato male il casco “Non c’è stata alcuna infrazione al codice stradale, è stato un incidente che poteva capitare a chiunque”, ha detto l’uomo. Netta in questo caso la risposta dell’avvocato: “C’è una perizia che ha fatto piena luce sulle responsabilità”, ha concluso.
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