Le vele di Scampia sono diventate famose in tutto il mondo, quale simbolo della “gomorra in terra”. Osceni palazzoni di edilizia popolare nati con l’idea, rivelatasi fallimentare, di creare un quartiere ghetto in una città che, invece non ha mai conosciuto confini. Napoli, a differenza delle altre grandi città europee, se non di tutto il mondo, non prevede e non ha mai avuto una struttura capitalista con il centro ricco e curato e le periferie, mano mano, più povere e popolari. Grazie alla sua millenaria storia, ha una bizzarra quanto mai democratica disposizione urbanistica, dove quartieri eleganti e prestigiosi si intersecano con altri più folkloristici e degradati, ma non meno belli e caratteristici.
Tranne che le Vele di Scampia, costruite fra il 1962 e il 1975, e diventate luogo di degrado e criminalità, tanto che oggi il Comune di Napoli ha deciso di abbatterle. Del dubbio che la riqualificazione di un luogo non possa passare per l’abbattimento di alcuni edifici e che il necessario trasferimento di chi attualmente vi abita non faccia altro che trasferire il degrado altrove, senza risolverlo, ne ho parlato con l’Architetto Carmine Piscopo, Assessore all’Urbanistica della Giunta De Magistris.
La riqualificazione di un quartiere può passare dall’abbattimento di alcuni edifici?
È chiaro che quando parliamo di un cambiamento così forte e importante è difficile dare una risposta in senso generale. Dobbiamo contestualizzare quello che stiamo facendo: non vogliamo abbattere le Vele per cancellare, dimenticare e disperdere una memoria, anzi! Vogliamo affrontare la sfida culturale e politica che riguarda la permanenza del più grande edificio dei quattro, trasformandolo in sede per uffici.
Il punto è che è diventato complicato, oggi, parlare di Vele come edifici abitativi e come macchina per abitare. Nel tempo sono stati cambiati i rapporti tra i corpi di fabbrica rispetto al progetto originario che sono stati realizzati con altezze diverse rispetto alle altezze e ai volumi, dove le proporzioni sono state alterate e tante altre manomissioni rispetto al progetto.
Cosa sorgerà al posto delle Vele?
Pensiamo all’abbattimento di tre Vele su quattro, che è un’istanza molto forte posta dal territorio, e alla trasformazione della Vela Celeste in edificio che ancora ospiti temporaneamente la residenzialità e che poi possa essere trasformato per accogliere funzioni pubbliche o di interesse collettivo, così come accade nel ripensamento di tutti quei quartieri degli stessi anni in Olanda e Francia e in Germania.
Abbiamo uno studio di fattibilità, che è stato realizzato dai dipartimenti di ingegneria e di architettura dell’Università insieme al comitato Vela e quindi con gli abitanti del luogo, oltre che con i nostri uffici, in cui si prevede in quell’edificio l’ubicazione del Consiglio metropolitano e la nuova sede della Città metropolitana, oltre ad attrezzature pubbliche prima di tutto di tipo scolastico come asili nido.
Abbiamo inoltre in mente un lavoro sul parco della socialità, che oggi divide e che ha bisogno di correttivi perché unisca, e lavori sulla viabilità per quanto riguarda l’accessibilità. E infine, interventi che riguardano la stazione della metropolitana che oggi separa drammaticamente Piscinola da Scampia e che invece deve diventare un edificio che unisce.
In ultimo, come previsto dal piano regolatore, la possibilità di realizzare il 25 percento della cubatura in residenze speciali, cioè case per giovani coppie, per anziani, non residenze da mettere a libero mercato, ma un mix funzionale anche per quelle situazioni difficile che il quartiere ha sempre espresso.
Cosa ne sarà delle famiglie che attualmente abitano nelle Vele da abbattere?
Sono due binari paralleli che l’amministrazione sta portando avanti. Da un lato sta completando i cosiddetti abbinamenti per l’assegnazione di nuove abitazioni, che sono state terminate e che si trovano lì vicino.
Poi c’è l’altro, che è il progetto generale che riguarda tutta l’area di Scampia. Per i nuclei familiari che ancora rimangono nelle Vele, abbiamo pensato che nella Vela che rimane si possano accogliere temporaneamente quelle famiglie e man mano trasferirli nelle case che realizzeremo.
Non crede che, trasferendo le famiglie delle Vele, non si faccia altro che spostare il degrado da una zona ad un’altra?
Noi rigettiamo l’immagine delle Vele come simulacro della criminalità che insiste sul territorio. Purtroppo sappiamo che è una narrazione della città, ma è solo una narrazione. Scampia è il territorio che ospita il più alto numero di associazioni. Anche la meravigliosa macchina del volontariato che si è messa in moto per il terremoto del Centro Italia, per quanto riguarda Napoli, è partita da Scampia.
Scampia è un luogo in grado di sorprendere, dove le relazioni che hanno costretto le persone in luoghi che sono profondamente inadeguati, hanno generato disagi ma anche cose belle. Qui c’è gente che lotta tutti i giorni. Siamo convinti che, realizzando delle case che rispondono alle esigenze della collettività, la situazione cambierà moltissimo. Scampia è stata a lungo il margine del territorio comunale: oggi dobbiamo guardare alla scala della città metropolitana di cui è diventata il cuore stesso, il centro di quella città continua che arriva fino a Caserta.
Edoardo diceva “Il presepe è bello, sono i pastori che non sono buoni”. Da quello che dice, sembra il contrario: i pastori sono buoni, era il presepe a essere sbagliato.
Credo che quelle situazioni difficili abbiano esasperato e drammatizzato le condizioni di vita. Sappiamo che Scampia ha rappresentato un luogo di fortissima resistenza, come tutte le periferie. Scampia è un luogo vivo, molto attivo e sappiamo che quei valori di resistenza all’omologazione e alla narrazione che è stata fatta stanno venendo fuori, hanno trasformato le famiglie e chi ci vive. Abbiamo fatto moltissime assemblee e abbiamo conosciuto questa umanità viva.
Si tratta di cambiare il presepe e la narrazione. Più che gli edifici, bisogna abbattere la narrazione che li ha voluti vedere come feroci simulacri imperniati nel territorio e farli diventare luoghi di produzione. La collettività ha resistito a questa narrazione e ha sviluppato una grande solidarietà al proprio interno.
Ricordo che appena i cittadini colpiti dal terremoto dell’Aquila furono reinsediati nelle 19 New Town, l’unica cosa che chiedevano erano di non perdere la solidarietà che si era instaurata nelle tende. Chiedevano luoghi dove poter continuare a essere solidali. In queste situazioni estreme, che non dovrebbero accadere e che non si augura a nessuno, consentono alle comunità di riconoscersi tramite la sofferenza e la civiltà che deve essere accompagnata in condizioni differenti, dove si possa esprimere. È questo il compito di un’amministrazione.
L’abbattimento non è la cancellazione di quel simbolo, non è la sconfitta, della serie “Scampia è Gomorra e noi la abbattiamo”. Sappiamo che l’abbattimento e la costruzione in uno stile differente è una sfida culturale alla memoria urbanistica e alla politica.
Articolo realizzato in collaborazione con Lorena Cacace