Una vittima ogni due giorni, sono questi i dati agghiaccianti diramati solo pochi giorni fa dall’Eures nel report sul femminicidio in Italia. Dal 2012 al 2013 c’è stato un incremento del 14%. Risulta quanto mai attuale mettere nero su bianco la necessità di un approccio diverso nell’affrontare il problema della violenza contro le donne. La Presidente dell’associazione Dire, Titti Carrano, in un’intervista per Pourfemme.it, denuncia la situazione dei finanziamenti ai centri antiviolenza in Italia: «Per gli anni 2013-2014 i finanziamenti sono stati sbloccati, ma il decreto mette in atto una mappatura assurda che comprende addirittura 352 centri antiviolenza mentre in Italia ce ne sono circa un centinaio che si occupano in modo specifico di violenza contro le donne. La cifra totale viene quindi ripartita tra tutte queste realtà, arrivando a circa 6 mila euro nel biennio per ogni centro, somma che basta a malapena a coprire le utenze».
Il focus sulla violenza contro le donne pubblicato su Pourfemme, riporta anche i dati della Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna: 134 casi di femminicidio (uccisioni di donne avvenute per motivi di genere) nel 2013. L’età media delle vittime è di 47 anni, 89 erano italiane, le restanti straniere, e 13 di loro erano prostitute. Sono stati 83 i casi di tentati omicidi ai danni delle donne. Si richiede inoltre da tempo a gran voce un database ufficiale dello Stato per registrare il fenomeno in modo accurato, anche se bastano pochi minuti sul sito In quanto Donna, sito che raccoglie il muro della memoria delle vittime di femminicidio, per avere una minima idea di quello di cui stiamo parlando. Il senso di possesso e l’incapacità dell’omicida di riuscire a gestire la separazione dalla compagna sono il più alto fattore di rischio nei casi registrati di femminicidio: la voglia di libertà della donna diventa spesso il movente dell’aggressore. Tutto questo perché non si è ancora trovato un modo adeguato di affrontare la protezione della donna, anche dopo la denuncia.
Lo racconta bene Maria, nome di fantasia, che ha voluto condividere la sua testimonianza: 10 anni di soprusi, violenza psicologica e fisica, che si sono abbattute anche sul figlio: «Negli ultimi due anni quando la violenza è diventata fisica, ho temuto per la mia vita, ero terrorizzata, solo il sentire le chiavi che annunciavano il suo arrivo mi faceva tremare, ero rassegnata e pensavo che non potevo fare niente per uscirne, aspettavo che succedesse il peggio quasi come un sollievo. Mi dicevo “prima o poi ti ammazza”». Lasciata da sola in balìa della sua violenza quotidiana, è riuscita a risollevarsi solo grazie all’amore per il suo bambino, cominciando un percorso di libertà grazie all’aiuto della fondazione Pangea e dei suoi volontari. Molto spesso il circolo vizioso dei soprusi parte dalla dipendenza economica della vittima, che accetta la situazione per l’incapacità ad esempio di poter mantenere autonomamente i propri figli, che diventano a loro volta vittime e testimoni della violenza quotidiana della madre: «Questi bambini perdono la loro infanzia, diventano presto degli ‘ometti’, confusi tra due sentimenti: l’ammirazione per il padre forte, che comanda tutta la famiglia come un capo branco, e la voglia di proteggere la mamma dalle violenze. Spesso hanno difficoltà a relazionarsi con gli altri bambini, vanno male a scuola, sono a loro volta violenti e si sentono impotenti di fronte alla loro violenza quotidiana» racconta nell’intervista del focus Anna Maria Galarreta di Fondazione Pangea.
Diventa centrale l’importanza di riconoscere il lavoro dei centri antiviolenza e la necessità di un approccio che non sia legato solo all’emergenza sociale, a partire dalle istituzioni: «Negli anni abbiamo ribadito la nostra ferma opposizione a logiche sicuritarie e d’emergenza, perché la violenza maschile nei confronti delle donne non è un’emergenza. Non siamo solo noi a sostenerlo, ma la stessa Convenzione di Istanbul, che è stata ratificata anche dall’Italia e che entrerà in vigore il 1° agosto 2014, ribadisce che la violenza contro le donne è una questione culturale e politica profonda quindi è importante che ci siano delle riforme strutturali – dichiara Titti Carrano – Ci si limita purtroppo all’uso dello strumento penalistico come forma privilegiata di contrasto al fenomeno della violenza di genere, non c’è alcuna relazione tra questo tipo di politica legislativa e la libertà della donna. Era necessaria una legge organica strutturata e strutturale che affrontasse tutti gli aspetti, con un sostegno adeguato ai diversi centri antiviolenza, mentre il decreto, poi convertito in legge, prevede sostanzialmente solo norme penali».