25 novembre 2022, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Donne che ancora continuano a morire, vittime della furia omicida di mariti, fidanzati, compagni, ex, a volte padri o fratelli, addirittura figli.
Lo chiamano femminicidio, ma nei fatti è la morte causata dalla mano di chi dovrebbe volerti bene in famiglia o in coppia. Un bollettino di guerra senza precedenti, le statistiche di inizio novembre 2022, ultime rilevazioni utili, parlano di una donna uccisa ogni tre giorni. Eppure, nella maggior parte dei casi, quando sui giornali campeggia l’ennesima notizia di un femminicidio, leggiamo la storia di chi quel gesto l’ha compiuto, non di chi l’ha subito. È il male il motore di ogni racconto. E lo è anche di questo racconto.
Il movente che trasforma gli uomini in spietati assassini è sempre lo stesso: l’abbandono, reale o presunto, da parte di una donna determinata a cambiare vita, motivata dalla volontà di liberarsi del suo aguzzino, della sua incapacità ad amare, della sua inappagabile sete di dominio. Un viaggio dentro la violenza, quella che si cela dietro sorrisi di circostanza e lividi mascherati con il fondotinta, che richiede però, oltre al sostegno di chi ne è vittima, anche un intervento culturale e sull’uomo maltrattante. Perché imprescindibile è la messa in sicurezza della donna vittima di abusi. Ma se non lavoriamo anche sugli stereotipi di genere e sul suo aguzzino avremo salvato solo quella donna. E lui potrà cercare altre vittime.
Accanto al cimitero al quale continuano ad aggiungersi croci, accanto a esistenze frantumate e a sogni dilaniati, c’è l’invisibile sentiero del dolore: un vicolo cieco di violenze fisiche e psicologiche. Tumefazioni e lesioni che non guariscono mai. Che non arrivano in prima pagina. Né in questura, in qualche caserma dei carabinieri o in tribunale. La violenza non è infatti solo quella refertabile al pronto soccorso. Quella fatta di lividi, di schiaffi, di morti. Ma è anche quella che si ciba delle umiliazioni, della disumanizzazione e della schiavitù di chi ne è vittima. Un abuso sordo e distruttivo capace di annientare chi ne viene colpito. E allora, vista la fallacità del sistema che ancora non riesce a contenere queste croci rosa, da dove bisogna partire?
Dal punto di vista sociale, il patriarcato è ancora preponderante nella nostra cultura ed impedisce di sradicare l’idea della donna come soggetto secondo all’uomo. Da tale angolazione, non esiste un profilo di donna tipo che subisce violenza. La violenza contro le donne è trasversale: colpisce senza distinzione d’età, provenienza geografica, livello d’istruzione o status sociale. E la violenza non è solo fisica. Ma, come evidenziato, è anche psicologica, economica, verbale, sessuale.
Per queste ragioni bisogna inserire nelle scuole l’educazione sentimentale e quella al rispetto. Ma prima di farlo bisogna intervenire sulla famiglia, che è il primo nucleo nel quale eliminare lo stereotipo. Perché la violenza contro le donne non deve essere arginata, ma estirpata. Ricordiamoci che il delitto d’onore, che prevedeva l’assoluzione del marito che avesse ucciso la moglie per ragioni di gelosia e tradimento, è stato abolito solo nel 1981. E allora è necessario spiegare ai nostri figli che la donna non è proprietà dell’uomo. E che la violenza nasce nel momento in cui si vuole prevaricare l’altro.
Poi però dobbiamo anche chiederci il perché il sistema, di fronte a violenze così inenarrabili scoraggi la denuncia. La verità purtroppo è che nei fatti le donne sono abbondonate in balia dei loro aguzzini, con il timore dello stigma sociale che potrebbe derivare loro da una denuncia. Denuncia della quale poi non si sentono in grado di sopportarne l’iter. Proprio per ovviare a queste problematiche, dopo il codice rosso, il decreto rilancio del 2020 ha istituto il reddito di libertà.
Per uscire dal ciclo della violenza, dopo la presa in carico delle case rifugio, le donne hanno bisogno di una casa, di un lavoro e di una stabilità. Per questo è stato concepito il reddito di libertà, un sussidio economico volto ad incentivare le denunce e finanziato anche dall’ultimo decreto rilancio con quindici milioni di euro. Poche donne ne conoscono l’esistenza, perché troppo poca è l’informazione in merito. Ma è uno strumento per consentire l’indipendenza, l’emancipazione e la strada dell’autonomia per le vittime di genere che si trovano in condizione di povertà.
Può essere richiesto all’Inps dalle donne vittime già seguite dai centri antiviolenza, sole o con figli minori a carico, ed è erogato dalle regioni e dai servizi sociali locali. Ha come scopo principale quello di assicurare a queste ultime l’autonomia abitativa ed il percorso scolastico per i figli o le figlie minori. Si tratta di un sussidio economico indipendente e che non contrasta con l’eventuale percezione di altri redditi, come ad esempio quello di cittadinanza.
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