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La vitamina D, che in realtà è un ormone, è associata al sole e alla buona salute delle ossa. Per anni gli esperti hanno dibattuto sui valori soglia che determinano situazioni di carenza, ossia l’ipovitaminosi D, fino alle ultime conclusioni tratte da un gruppo di specialisti provenienti da tutto il mondo che hanno firmato un recente documento pubblicato sulla rivista ‘British Journal of Clinical Pharmacology’, argomento trattato anche in occasione del 7° Clinical Update in Endrocrinologia e Metabolismo (Cuem), ospitato dal Centro congressi del San Raffaele di Milano.
A parlarcene è Andrea Giustina, professore ordinario di Endocrinologia al San Raffaele di Milano e presidente Gioseg (Glucocorticoid Induced Osteoporosis Skeletal Endocrinology Group).
“Nonostante le controversie sulla vitamina D, il suo ruolo essenziale nella salute dell’osso è noto da oltre un secolo e, generalmente, quando si riscontra uno stato di ipovitaminosi D si interviene somministrando il colecalciferolo o altri precursori della vitamina D”.
Sottolinea l’esperto: “Trattandosi di un ormone, e non di una vitamina come erroneamente si crede è fondamentale quindi accertarne il deficit, definire la gravità della carenza nel singolo individuo. Questo ci permette di intervenire in forma personalizzata”, dato che parliamo di “un ormone strategico per la resistenza dell’osso, che se non correttamente mineralizzato diventa poco resistente, quindi più predisposto a sviluppare fratture scheletriche”.
Nonostante vi siano diverse definizioni di ipovitaminosi proposte da diverse società scientifiche e istituzioni nazionali e internazionali, ad oggi, il dosaggio sierico del metabolita circolante, la 25 idrossi-vitamina D, è considerato lo standard per valutare la concentrazione di vitamina D nel sangue. Il consenso raggiunto dagli esperti che si sono riuniti l’anno scorso a Pisa è che valori di 25 idrossi-vitamina D inferiori a 12 nanogrammi per millilitro (ng/ml) riflettono una condizione sfavorevole per la salute ossea, un ridotto assorbimento del calcio, una scarsa mineralizzazione ossea e vengono associati a un aumentato rischio di rachitismo e di osteomalacia; solo però valori superiori a 20 ng/ml sono considerati sicuri e sufficienti per la salute dell’osso.
“Questo consenso è a suo modo storico – commenta Giustina – in quanto per la prima volta sono state individuate soglie ideali, e condivise dai più grandi esperti presenti all’interno della comunità scientifica, per definire una condizione carenziale o di insufficienza di vitamina D. Non è solo un esercizio accademico, ma è fondamentale per intraprendere l’adeguata terapia. Perciò è stato importante” il traguardo raggiunto. “Questo non vuol dire che tutti i problemi in questo ambito siano risolti: infatti, se da un lato non abbiamo ancora raggiunto una standardizzazione a livello mondiale delle tecniche di misurazione, dall’altro dagli studi clinici ci arrivano talvolta risultati contraddittori spesso legati proprio alle soglie di intervento”.
La definizione di ipovitaminosi D a cui sono giunti gli esperti, conclude Giustina, “rappresenta un importante passo avanti per la gestione clinica sulla base di criteri condivisi a livello internazionale. Le prossime consensus daranno l’opportunità a questo gruppo di specialisti di affrontare i problemi ancora sul tappeto”.
In collaborazione con AdnKronos