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Un lavoro fotografico che ha selezionato migliaia d’immagini, scegliendo quelle che potevano dare nel modo migliore voce a chi non ce l’ha. We Animals, il lavoro di Jo-Anne McArthur, pubblicato da Safarà Editore, è questo e molto di più; vuole essere un quadro a 360 gradi dello sfruttamento animale perpetrato ogni giorno non solo nei più famosi allevamenti intensivi ma anche in tutti quei circuiti che ne prevedono l’utilizzo, rendendoli parte di un meccanismo che li vede sempre e comunque vittime, numeri facilmente sacrificabili. Abbiamo incontrato l’autrice nella tappa milanese del suo tour italiano, nello spazio L22, in via Lombardini.
In We Animals il lavoro fotografico è spesso evocativo. Siamo a volte lontani dalle immagini cruente che siamo abituati a vedere nei libri degli attivisti per la liberazione animale. La crudeltà è sempre lì, in una dimensione che sembra sospesa, che ci ricorda cosa possiamo fare, che sofferenza possiamo arrecare senza quasi rendercene conto: «Quando parliamo della tipica fotografia legata alle campagne animaliste, quello che cerco di fare io è rendere, per quanto possibile, queste immagini più belle – ci racconta Jo-Anne McArthur – questo perché voglio far in modo che la gente si senta più coinvolta per un argomento molto difficile da rendere coinvolgente. La maggior parte delle persone può guardare quest’immagine e fare finta di non vederla o non volerla proprio vedere, e qui sta la differenza tra un’immagine cruenta e basta e un’immagine coinvolgente: se siamo nel secondo caso, dove c’è anche una buona composizione, un piccolo elemento che spicca, del bello in un certo senso, le persone poi tornano indietro e cercano di capire».
In alcune delle foto presentate nel libro si fa riferimento ai santuari, luoghi in cui gli animali possono vivere liberi, al di fuori dei circuiti di sfruttamento imposti dagli uomini: «I santuari sono dei posti splendidi, non solo per gli animali ma anche per gli umani perché lì impariamo molto. Ogni anno l’uomo uccide milioni di animali senza percepirlo davvero come un problema – continua la fotoreporter – milioni di corpi ci sembrano sempre e solo un numero, mentre nel santuario li percepiamo come individui. Sono quindi posti fantastici per l’educazione, per imparare ad entrare in connessione con gli animali. Di solito in questo mondo non entriamo in contatto con “la carne che mangiamo”, “i vestiti che indossiamo”, o “i medicinali che usiamo” che sono testati sugli animali. Nei santuari invece possiamo guardarli davvero negli occhi, e renderci conto che sono senzienti, che sono qualcuno non solo “qualcosa”. È bellissimo sapere che molti santuari stanno nascendo in giro per il mondo e so che ce ne sono alcuni anche qui in Italia».
Lo sfruttamento animale però non si consuma solo per avere del cibo ma anche per il nostro divertimento. La caccia, gli zoo, i circhi, sono spesso comunque luoghi di sofferenza: «Abbiamo tenuto in cattività gli animali per così tanto tempo che ci sembra naturale che sia così – precisa l’attivista – Li usiamo per il nostro divertimento al circo e li andiamo a vedere negli zoo, oppure nelle corride, appendiamo le loro teste imbalsamate ai nostri muri, oppure usiamo la loro pelliccia per i nostri vestiti, perché non pensiamo a loro come individui ma come “pezzi di qualcosa” e tutto questo è stato reso normale. Quello che cerco di fare con il mio lavoro è invece rimettere tutti questi pezzi insieme e mostrarli: questa è una volpe prima di diventare la tua pelliccia, queste sono le condizioni in cui vive e queste sono le condizioni in cui morirà. È tutto talmente nascosto che non riusciamo a creare delle vere e proprie connessioni con questi animali, è importante mostrare, questo è quello che cerco di fare con We Animals». Spesso si percepiscono questi luoghi di sofferenza come qualcosa di lontano, che fa parte di un mondo che non ci coinvolge, perpetrato da persone distanti da noi, eppure le cose si potrebbero vedere sotto una diversa prospettiva: «Non sono solamente situazioni relegate in posti remoti, noi teniamo in casa anche uccelli o pesci. C’è ad esempio un’immagine che potete trovare nel libro che secondo me è tristissima e rende l’idea di cosa intendo per cattività. Vediamo un piccolissimo pesce sul fondo di un piccolo acquario, in un microscopico angolo. Io lo pensavo agonizzante ed esclamo “Guarda che il tuo pesce sta morendo” e mi sono sentita rispondere “Oh no non sta morendo, sta in quella posizione da due anni”. Quella risposta mi spezzò il cuore perché è proprio il simbolo di uno dei milioni di corpi che non percepiamo come individui e che teniamo in un luogo non naturale senza un vero motivo».
Questo è il momento storico in cui spesso una scelta di vita vegana o vegetariana viene derisa e tacciata di essere “estremista”: «Mangiare animali è un processo che è stato reso normale in centinaia e centinaia di anni, e le persone dimenticano, o meglio non sanno, che si tratta di un’ideologia, quella che Melanie Joy chiama appunto carnismo. I carnivori vedono nei vegetariani e nei vegani che non mangiano cadaveri per non creare sofferenza un’ideologia mentre non si rendono conto che anche la loro lo è, è solo talmente acquisita che non si domandano davvero se esistano o meno delle alternative, è semplicemente normale. Questo fortunatamente sta cambiando, stiamo diventando sempre più coscienti della sofferenza che causiamo agli animali. Ci sono davvero tantissime ragioni che adesso stanno mettendo in discussione questa visione del mondo».
Denunciare le condizioni degli animali può essere particolarmente difficile soprattutto per chi ha sviluppato naturalmente una certa sensibilità per il tema. Non sono rari i casi di attivisti che decidono di non guardare più immagini cruente: «La parte più difficile del mio lavoro si vede bene nel documentario “The ghosts in our machine”, ed è lasciare queste fabbriche, questi allevamenti, tornare nella mia comoda casa, cosciente delle terribili situazioni in cui vivono. Io chiudo la porta e loro comunque stanno lì e verranno uccisi. È una sorta di senso di colpa da sopravvissuto con cui devo conviver. Ho avuto a che fare con problemi di stress post traumatico e depressione ma il fatto che loro siano in quelle condizioni mi dà una spinta per lavorare di più affinché questa sofferenza finisca. L’aspetto più difficile per un’attivista è capire che far aprire gli occhi alla gente richiede molto tempo, soprattutto in questo caso perché l’ideologia del carnismo è molto radicata. È una battaglia aperta ma io sto vedendo dei cambiamenti significativi. Oggi c’è una vera disponibilità di prodotti alternativi praticamente ovunque».
Qual è stato il momento in cui hai capito che questa sarebbe diventata la tua battaglia? «Ci sono stati sicuramente dei momenti chiave in cui io ho capito che questo era quello che volevo fare nella vita. Quando ero piccola mi sentivo ispirata dalla dottoressa Jane Goodall, quando la vedevo pensavo “che vita meravigliosa, piena di significato, voglio anche’io fare qualcosa di simile”. Nel 1998 quando stavo tornando dall’Ecuador, avevo visto una scimmia che stava in cattività dietro un vetro e dei turisti che si fermavano e facevano foto perché pensavano fosse divertente. Lì, in quel momento ho invece realizzato quanto fosse crudele e lì è iniziato il lavoro di We Animals, quando ho capito che potevo usare la mia fotocamera come strumento per educare, quando ho realizzato che con la mia fotocamera potevo rendere visibile ciò che noi consideriamo invisibile».
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