Il 26 novembre 2010 Yara Gambirasio usciva di casa per recarsi nella palestra da lei frequentata, in prossimità del centro sportivo di Brembate di Sopra in provincia di Bergamo.
Da quel momento in poi non farà più rientro nella sua abitazione. Verrà ritrovata cadavere esattamente tre mesi dopo nel campo di Chignolo d’Isola, distante solo alcuni chilometri dal luogo della scomparsa. Per il suo omicidio, quattro anni dopo, è stato condannato all’ergastolo ed in via definitiva Massimo Giuseppe Bossetti.
Il punto di partenza dell’indagine sulla morte di Yara Gambirasio è rappresentato dal dato secondo il quale Yara è stata uccisa dalla persona che ha lasciato la sua traccia in prossimità delle mutandine e del gluteo. Una certezza incontrovertibile e fondata su basi solide. Difatti, la traccia rilasciata dall’offender era mista, contenendo materiale genetico sia di Yara che del suo assassino. In aggiunta, il materiale in parola si trovava in corrispondenza del taglio sulle mutandine. Dunque, proprio questa collocazione era stata fin da subito capace di fugare ogni dubbio sulla partecipazione alla fase omicidiaria della persona a cui quella traccia apparteneva.
Acclarato che solo chi ha ucciso giovane ginnasta poteva essere il proprietario di quella traccia, e a seguito di un’indagine faticosa affidata ai Carabinieri del Ris di Parma, era stato isolato sul corpo della ragazzina un profilo genetico, denominato Ignoto 1 perché non schedato. E, dunque, sconosciuto. Un dato non di poco conto quest’ultimo che condusse fin da subito ad escludere qualsiasi rischio di contaminazione. Così, a seguito di innumerevoli campionamenti, il profilo isolato è stato ricondotto proprio a Bossetti. Dopo aver scoperto che apparteneva ad un figlio illegittimo, il cui padre si chiamava Giuseppe Guerinoni.
Il DNA si classifica in nucleare e mitocondriale. Il primo è l’unico identificativo di un soggetto, contenendo i geni di entrambi i genitori, mentre il secondo indica esclusivamente la linea materna. E, tanto per dire, in genetica forense non si indaga mai il DNA mitocondriale in quanto, trasmettendosi solo di madre in figlio, non può reputarsi identificativo di un soggetto. Dunque, combaciando il nucleare isolato sugli slip con quello dell’assassino, appariva una certezza affermare che Yara era stata portata in quel campo da Bossetti.
Il DNA di quest’ultimo era stato prelevato mediante un finto controllo alcolemico ed analizzato nel laboratorio di genetica forense diretto dal Prof. Carlo Previderè. Il luminare aveva concluso che il profilo isolato sugli slip di Yara poteva appartenere ad una persona soltanto: Massimo Bossetti.
Ma oltre alla prova scientifica c’è anche la controprova. Durante il processo di primo grado tutta la famiglia Bossetti è stata sottoposta al test di DNA: in quella circostanza il muratore di Mapello ha scoperto di non essere il figlio del padre che lo aveva cresciuto.
La portata probatoria del DNA era stata rafforzata da quella che la Corte d’Assise di Bergamo aveva chiamato “elementi indiretti di conforto”.
Massimo Giuseppe Bossetti aveva provato ad eludere il sistema, spegnendo il suo cellulare dalle ore 17.45 del 26 novembre fino alle 7.34 del 27 novembre 2010. Ma l’ultima cella agganciata era proprio quella di Via Natta, che certificava la sua presenza in zona al momento della sparizione di Yara.
Sulle ferite di Yara erano state repertate particelle di calce compatibili con un offender abituato a frequentare i cantieri edili. Un dato immediatamente riscontrato dalla Prof. Cristina Cattaneo, che nell’immediatezza aveva sottolineato che l’assassino di Yara doveva essere un uomo che lavorava in cantiere. Proprio come Bossetti.
Le telecamere di video sorveglianza avevano ripreso il passaggio ripetuto, a partire dalle 17.45 del 26 novembre 2010, un furgone Fiat Iveco Daily di colore chiaro come quello posseduto da bossetti.
Dopo l’arresto, sequestrati i computer della famiglia, venivano rinvenute ricerche in rete dai contorni oscuri. Le parole chiave inserite sul motore di ricerca avevano come query “ragazzine rosse tredicenni per sesso”, “ragazzine con vagina rasata” e molto altro difficilmente spendibile a titolo di cronaca. Durante il processo, la moglie Marita Comi non ha mai escluso di aver navigato con il marito su siti pedopornografici con teenager, ma, al contempo, ha sempre negato di aver cercato keyword dal calibro di “ragazzine con vagina rasata”.
Paradossalmente Bossetti ha smentito categoricamente di aver visionato certi siti. Le sue preferenze sessuali, però, erano risultate compatibili con quanto manifestato nelle lettere a Gina in carcere. Luigina Adami era la detenuta con la quale Massimo si è scambiato alcune lettere dopo l’arresto. La corrispondenza tra i due era ricca di nomignoli e fantasie sessuali, comprese le preferenze per le parti intime depilate. Il muratore era stato da poco arrestato e su di lui gravavano già accuse pesanti come macigni. Gina, giovane di origini sinti, sposata con un giostraio e madre di quattro figli, era in carcere per scontare un cumulo di pene di 14 anni. Tali lettere hanno dimostrato non soltanto come il condannato avvertisse pulsioni sessuali di una portata non arginabile neppure in un contesto come quello della reclusione carceraria, ma anche il movente sessuale.
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