Oggi Yara Gambirasio avrebbe compiuto 26 anni. Beffardo il destino, vista l’intervenuta decisione della Corte di Cassazione, proprio due giorni fa, di concedere la ricognizione di reperti ai legali dell’assassino della ginnasta di Brembate, Massimo Giuseppe Bossetti.
Un accesso che, secondo gli avvocati dell’uomo, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, gli consentirà di ottenere la revisione del processo. Non è questo il momento né la sede per discuterne. Ciò perché, altrimenti, anche nel giorno del compleanno di Yara, si tornerebbe ancora una volta a dare luce all’artefice del suo omicidio.
Infliggendo un’ulteriore atroce condanna non solamente a lei. Ma anche alla sua famiglia. Una famiglia, quella dei Gambirasio, che negli anni ha dimostrato un’umiltà ed una pacatezza difficilmente preventivabile. Trincerandosi in un dolore straziante come quello che può derivare dalla morte di una figlia.
Per questo, volendo ricordare la piccola Yara nel giorno del suo compleanno, ho deciso di renderla voce narrante della sua tragedia. Come se, almeno per una volta, potesse rivendicare la speculazione che continua ad aleggiare intorno alla sua morte. Una speculazione promossa da parte di chi, con qualunque mezzo, cerca di passare vittima nella tragedia. Quando, in realtà, altro non ne rappresenta se non il carnefice. Oggi sono tredici anni che non festeggia più con i suoi cari. Tredici, come quelli in cui la sua vita è stata sacrificata quel maledetto 26 novembre 2010.
“Mi chiamavo Yara Gambirasio e avevo soltanto tredici anni quando il mio tempo, senza più stagioni, si è spezzato in una notte di fine novembre. Ancora non ho ben compreso se sia stato più difficile trovarmi al buio, sola, infreddolita in quel campo di Chignolo d’Isola, a qualche chilometro da casa mia, o se la sofferenza più atroce mi sia stata inflitta dalla consapevolezza che non avrei mai più abbracciato mamma Maura, papà Fulvio ed i miei adorati fratelli: Keba, Natan e Gioele. Non riesco, in effetti, a quantificare neppure il dolore di essere rimasta sdraiata tra quelle sterpaglie per mesi, mentre mi chiamavano per nome ed io non potevo rispondere. Ne ero all’oscuro, ma, in realtà, mi trovavo nella terra degli scomparsi. Una terra che qualcuno, a ragion veduta, chiama “terra del niente”. Una terra che poco prima era stata anche di Sarah Scazzi, la ragazza di Avetrana. Anche lei come me: innocente e grazia, timida e bambina. La sua terra, quella dell’abisso salentino, aveva però assunto le sembianze di un pozzo sperduto. Percepivo una dimensione sospesa, senza più coordinate. Speravo che qualcuno mi soccorresse, ma nessuno è mai arrivato a liberarmi. Forse, l’errore più grande lo avevo commesso salendo su quel furgone. Era stato l’istinto a tradirmi? Ne ero sicura, o quasi. Certamente, in quei momenti, cercavo una spiegazione che fosse quanto meno razionale. Non è mai arrivata. Per questo non lo saprete mai. Per questo non lo sapremo mai. Perché sono io stessa a non ricordare. Non rammento se sono salita di mia volontà su quel mezzo o se sono stata costretta. Nessuno si è accorto di nulla. Era probabilmente già troppo buio. Sono stata strappata alla vita quando ero appena adolescente e portavo i miei anni con la baldanza di chi aveva ancora un’esistenza da spendere tra ginnastica e sogni. Tifavo Milan, la mia cantante preferita era Laura Pausini e avevo un diario segreto. Come tutte le ragazze della mia età. Ero circondata da tante persone che mi volevano bene e che allietavano le mie giornate. Di nemici non ne avevo o, almeno, credevo di non aver nemmeno avuto il tempo di farmene. Eppure, dopo quel 26 novembre 2010, non c’è più stata sabbia nella mia clessidra. Tutti hanno imparato a conoscermi in quella foto con il body da ginnasta, ma ancora troppe persone non hanno capito veramente quanto io abbia sofferto. Forse, troppo spesso, distratte dal frastuono mediatico di chi non ha mai smesso di occupare il ruolo da protagonista sulla sinistra scena. Mentre gli altri non sanno, io ricordo perfettamente”.
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