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Yves Saint Laurent nella bufera per la pubblicità sessista: quando il corpo delle donne va bene solo per vendere

Yves Saint Laurent finisce nella bufera per la pubblicità sessista della campagna pubblicitaria che ha invaso Parigi. Troppo degradanti le immagini delle donne che appaiono sottomesse, in pose dal chiaro sfondo sessuale: per di più la maison ha puntato su modelle troppo magre. Tanto è bastato perché sul web partisse una contro-campagna mediatica con l’hastag #YSLRetireTaPubDegradante, che chiede alla casa di moda di ritirare i cartelloni. Gli scatti, realizzati dalla coppia di fotografi olandesi Inez and Vinoodh, mostrano donne con calze a rete, tacchi a spillo e pattini a rotelle ai piedi a terra con le gambe divaricate o appoggiate con le mani a uno sgabello. Troppo anche per i parigini che hanno preso d’assalto l’Autority per la regolamentazione della pubblicità (Arpp) che si sta già muovendo. “Non è la prima volta che Yves Saint Laurent viene bloccato dalla nostra autorità. La nuova visione artistica della casa, diretta da Anthony Vaccarello, sembra non essere consapevole della percezione che può avere il pubblico”, ha fatto sapere l’autority. YSL però non è la sola casa di moda a usare pubblicità sessiste pur di scioccare e promuovere le collezioni come la moda non è l’unico settore che usa il corpo delle donne per vendere.

Il tam tam mediatico continua in queste ore a ridosso dell’8 marzo, quando il mondo “celebrerà” la festa della donna. Per gli internauti francesi le immagini di questa campagna pubblicitaria sono andate oltre e sui social viene sottolineato come siano degradanti e umilianti per le donne. Inoltre, la scelta di usare modelle ai limiti dell’anoressia, con una magrezza eccessiva sottolineata dalla mano sapiente dei fotografi, rende il tutto ancora più negativo, veicolando un’immagine della bellezza fuori da ogni canone.

La maison di moda, contattata dal sito 20minutes.fr, non ha commentato al momento e non sembra intenzionata a rimuovere i cartelloni, anche perché le stesse immagini si trovano sul profilo Instagram di Saint Laurent dal 3 settembre, così come tutte le immagini della campagna per la collezione AI 2017.

Scorrendo, si trovano le foto incriminate come pubblicità sessista dal web e molte altre più o meno dello stesso stile: modelle magrissime, con le costole ben in evidenza, in pose che vogliono essere sensuali e invece spesso cadono nel cattivo gusto. Già una volta una campagna di YSL venne ritirata in UK per l’uso di modelle troppo magre. Bene che il caso mediatico sia scoppiato ma il “danno” è già stato fatto, soprattutto per le più giovani che conoscono il mondo attraverso i social. Probabilmente i figli di coloro che oggi si lamentano su Twitter quelle immagini le avevano già viste da mesi, condivise con gli amici, interiorizzate come concetto di “bellezza alla moda”.

Parlarne fa comunque bene perché la pubblicità sessista di Yves Saint Laurent è solo l’ultima: le campagne pubblicitarie del passato sono quanto di più sessista si possa immaginare. Guardandole oggi, ci vengono quasi i brividi a pensare che cinquant’anni fa era normale usare la foto di un marito che sculaccia la moglie perché non compra il caffè giusto.

In realtà, da allora non è cambiato nulla. Nel 2017, a San Valentino abbiamo trovato pubblicità sessiste in ogni dove: un’esplosione di sessismo e di cattivo gusto per “celebrare” l’amore. Anni e anni di femminismo e di lotte per l’uguaglianza e siamo ancora qui, inchiodati in stereotipi da medioevo.

La donna oggetto non passa mai di moda

La vicenda della pubblicità sessista di Yves Saint Laurent ci conferma (se mai ce ne fosse stato bisogno) che la donna oggetto non passa mai di moda e che il corpo femminile è sempre sul banco degli imputati. Ancora oggi, per vendere o promuovere qualsiasi cosa, è necessario passare da immagini di donne sexy e conturbanti, fosse anche il deodorante per il wc. Non è tanto la donna in sé quanto l’idea del sesso che veicola a spingere i consumatori a cedere alle lusinghe della pubblicità, in una sorta di mito delle sirene moderno dove il canto è stato sostituito dal lato B.

Ancora oggi, nel terzo millennio, la donna è collegata al sesso, come se non fosse un essere umano in sé ma solo in relazione all’uomo: valiamo se siamo riproduttive e se soddisfiamo i desideri e le necessità di una società a marcia maschilista.

Impossibile scindere la donna dal suo corpo. Il caso di Emma Watson, finita nel tritacarne mediatico perché, da femminista, non può fare un servizio fotografico sexy con mezzo seno scoperto, è emblematico. Tu, donna, sei il tuo corpo e, se vuoi far notare di avere un cervello e una coscienza, ti devi dimenticare di averlo e anzi mortificarlo, così non lo guardo e non mi distraggo.

Quello che viene messo in discussione è la libertà delle donne di usare il proprio corpo: se è una giovane e bella attrice di successo a fare un servizio fotografico sexy è una poco di buono, se è una maison di moda planetaria a fotografarla seminuda e in pose umilianti va bene. È lo stesso concetto alla base di chi contesta il diritto all’aborto: siamo un corpo a uso e consumo della società, non un essere umano completo di corpo, anima e cervello, e guai a chiedere troppa libertà.

Poi c’è la questione delle modelle troppo magre. Ogni volta la battaglia della moda per l’eccessiva magrezza delle modelle sembra sempre rimanere sulla carta: basta guardare le sfilate delle più importanti maison per vedere cosce scheletriche e ossa in evidenza. Il problema esiste e va affrontato ma ciò non toglie che il settore abbia fatto grandi passi avanti nel rompere stereotipi di genere, aprendo a modelli fuori dai canoni delle top model anni ’90, quando le modelle erano sì esempi di irraggiungibile perfezione. Oggi invece sfilano transgender, donne androgine o formose, mini taglie e oversize, di ogni colore e razza, magari meno di quanto ne servirebbe ma lo fanno.

Qualcosa si muove anche grazie alla spinta dei social che permettono libertà inedite per le nuove generazioni di donne, stanche di essere bacchettate perché troppo grasse, troppo magre, troppo nere, troppo bianche. Non possiamo addossare all’industria della moda le responsabilità che abbiamo come società: stilisti e direttori creativi fanno il loro mestiere e spesso sono molto più aperti della maggior parte di noi nell’accettare le diversità.

È giusto lottare contro la piaga dell’anoressia nel mondo della moda ma dobbiamo smettere di essere ipocriti e gridare allo scandalo ogni volta che una donna usa il suo corpo in libertà, anche per guadagnarci (come fanno le modelle). Se vogliamo che non ci siano più pubblicità sessiste, dobbiamo iniziare a non esserlo più noi.

Lorena Cacace

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